
Chi vuole esser lieto, sia, di doman non c’è certezza…
Qualche riflessione sul transumanesimo: siamo sicuri di volerlo? È una soluzione saggia per superare l’angoscia della morte?
Lorenzo il Magnifico, nella sua Canzona di Bacco, lasciando alla libertà di ciascuno la scelta, esaltava la caratteristica principale della Vita ovvero la sua incertezza.
Questa peculiarità, invero, la Vita la condivide con la Morte; anch’essa, a ben vedere, è incerta. Non sappiamo cosa accade dopo, non sappiamo dove andremo dopo, non sappiamo cosa ne sarà di noi, dopo.
Tali dubbi amletici accompagnano l’Uomo sia dalla preistoria quasi o, almeno, da quando l’Essere umano ha sviluppato un pensiero più ampio rispetto ai semplici bisogni legati alla sopravvivenza. Immagino che, ad un certo punto della propria evoluzione, l’uomo si sia chiesto “Ebbene, è tutto qui? Possibile che la Vita sia solo cacciare, seminare e raccogliere, difendersi dalle bestie feroci, unirsi all’altro per procreare?”.
La morte, ben presto, ha iniziato a rappresentare un mistero, un enigma. E, accanto alle domande, pian piano sono venute le risposte; credo che la nascita delle religioni possa trovare in questo uno dei propri fondamenti iniziali.
Bronislaw Malinowski , uno dei padri dell’antropologia culturale riteneva infatti che “fra tutte le fonti della religione, la morte, crisi suprema e finale della vita, riveste un’estrema importanza”.
Secondo Malinowski[1] la morte è l’enigma che ha indotto gli esseri umani a divenire religiosi o animistici, a scorgere un’anima in tutte le cose esistenti e a ritenere che l’anima potesse essere emancipata dalla morte stessa. “La morte è l’ingresso nell’altro mondo, non solo in senso letterale. Secondo la maggioranza delle teorie sulla religione primitiva, gran parte dell’ispirazione religiosa, se non tutta, è derivata di lì […] La morte e la sua negazione, l’immortalità, hanno sempre costituito, e costituiscono tuttora, il tema centrale delle aspettative future dell’uomo”.
All’uomo, stanco di porsi domande, la vita terrena sembrava troppo dura, nasceva quindi la necessità di una speranza. Qualcosa che potesse essere una sorta di premio, che potesse dare un senso all’annichilimento conseguente alla morte del corpo fisico. E la speranza, come proclama il detto, è l’ultima a morire.
Se in questa vita non riusciamo a raggiungere la felicità, la pace, la serenità non è perché esse non esistano ma perché non sono di questa terra, hanno pensato i nostri antenati. Infatti, sembra che i primi a sognare il paradiso furono i sumeri, lo chiamarono Dilmun e lo descrissero in una tavoletta, antica di circa 4.500, come un luogo puro e splendido nel quale non esistono malattie né violenza.
Successivamente ogni cultura ha immaginato, teorizzato e codificato il proprio paradiso – i Campi Elisi per gli antichi greci, il Gan Eden per i musulmani, la Terra Pura per i buddhisti, Vaikhunta per gli induisti, il Paradiso dei cristiani -, luoghi rassicuranti e idilliaci dove l’uomo, dopo la morte, poteva riunirsi alla divinità che lì dimorava.
La morte era sconfitta. La paura dell’ignoto era dissolta.
COSTEGGIARE LA VITA DAL DI FUORI VERSO IL TRANSUMANESIMO
In realtà, temo, che tale sconfitta non solo sia stata di breve durata ma anche effimera. Il primario senso iniziatico della morte si è via via affievolito. Le religioni non hanno saputo mantenere viva la spiritualità che inizialmente le sorreggeva, secolarizzando di conseguenza anche la morte. Certo, la mia è una riflessione generale, non intendo dire che milioni o miliardi di persone non credano più nell’aldilà, ma la fede è ben altro.
Il filosofo Roberto Mancini[2] sostiene che “Molti sono disposti a credere in un Dio immaginato come entità suprema, pochi credono nella felicità e nella salvezza. Molti temono l’inferno, pochi sperano la risurrezione. Così, invece di accogliere la vita vera, la costeggiamo dal di fuori, feriti dalla paradossale nostalgia per ciò che ancora non abbiamo mai scoperto”.
Eppure, la paura della morte l’avevamo riposta in un cassetto, quasi a convincerci che “se non ci penso, non esiste”; di tanto in tanto rifaceva la sua comparsa: il vicino, l’amico, il parente che muore ce la riportava alla vista, ma poi tornava nel cassetto. Oggi non è più così. La morte è tornata ad essere vissuta come un dramma unico, una tragedia che non ha eguali. La morte è la fine dell’uomo; ad esempio anche se il cristianesimo invita a pensare alla risurrezione e alla vita nuova con Cristo oltre la morte, permane immancabilmente nel cristiano un senso di fallimento, di una perdita che produce angoscia e, talvolta, disperazione. Non si è in grado di sopportare il pensiero della morte, e spesso si è rinviato al fatto che, se ha causato paura a Gesù stesso che ha pregato il Padre, se gli fosse stato possibile, di allontanarne il calice (Lc 22,42), non si vede perché esso non debba spaventare anche i suoi seguaci[2].
Ma c’è di più. Oggi i nostri cieli sono privi di divinità. Le abbiamo esiliate lontano da noi; non riusciamo più a trovare conforto in loro. Nell’era post moderna, della tecnologia pervasiva, sta nascendo una nuova religione. Una religione che ha riportato in primo piano la paura della morte e, nel contempo e di nuovo, la speranza di poterla sconfiggere.
Oggi la nuova religione è molto più vicina alla materialità dell’uomo, specie nel nostro occidente. La visione che propone è di una immortalità su questo piano fisico, senza la necessità di dover attraversare la morte.
La paura della morte è stata rivisitata, riportata a nuovo, enfatizzata. Avevamo perso la naturalezza della morte tanto che ora, non avendone più memoria, ci viene riproposta ma in chiave distopica. C’è una domanda non formulata che ha una risposta evidente: vuoi non morire? Oggi puoi!
Gli dei, più o meno terribili, gelosi, vendicativi o inclini all’incazzatura, non ci sono più. I cieli sono vuoti. Yahweh, Allah, Shiva, Kali, Hel, Loki insieme agli altri mille son stati costretti ad abdicare.
Oggi è in procinto di assurgere a religione mondiale e totalitaria il transumanesimo, preceduto da una serie di calamità simili alle invasioni delle mosche, delle ulcere sugli animali e sugli esseri umani, all’invasione delle locuste di biblica memoria.
Un transumanesimo meccanico, elettronico, ingegneristico, che promette la vita eterna in Terra, non più in un fantomatico paradiso. E il prezzo da pagare è la dissoluzione dell’Anima dell’Essere Umano. L’Entità immateriale onnipresente fatta di vuoto quantico dalla quale tutto sorge, anche ciò che riteniamo umano come il pensiero, le emozioni, l’immaginazione, il desiderio, saranno sostituiti da un microchip con un programma preimpostato.
Ho sentito paragonare internet a dio in quanto può essere in ogni luogo, ed oggi c’è chi vorrebbe fondere, in una sorta di simbiosi, cervello umano e internet aspirando all’immortalità.
L’uomo si sta illudendo di poter diventare esso stesso creatore e ci sono certamente buone possibilità che ciò accada, ma a che scopo?
TRANSUMANENSIMO: IBRIDAZIONE, EUGENETICA, UOMO MACCHINA. SCOPO AUTENTICO O EFFIMERO?
La nuova utopia sogna che l’essere umano possa essere liberato dal lavoro, dalla sofferenza, perfezionare l’organismo e le sue prestazioni; per i più avventurosi trasferirsi nella memoria di un computer, allontanare la morte fino a giungere all’immortalità e, quindi, trascendere i suoi “limiti” naturali. Eugenetica e ibridazione tra uomo e macchina, per creare il superuomo, super intelligente, capace di tutto, svelano una visione oltremodo materialista; poiché dell’essere umano si vede solo il corpo, lo si intende come macchina predisposto a continue migliorie.
Ma quali migliorie? Finalizzate a cosa? E, soprattutto, utili a chi? Chi considera indesiderabili le attuali condizioni umane? Perché?
Se non fossero state rilasciate interviste, scritti articoli su periodici blasonati, scritti libri che descrivono tutto questo non come utopica visione fantascientifica, ma come progetto in piena fase di realizzazione allora si sarebbe autorizzati a parlare di fantascienza o peggio di complottismo. Ma tutto ciò esiste e non da pochi anni oramai.
Ho sentito con le mie stesse orecchie persone dichiararsi eccitate all’idea di potersi ibridare con un computer. Un brivido freddo ha attraversato la mia spina dorsale! Non è sogno utopico ma un progetto che qualcuno non vede l’ora di realizzare; non solo taluni mecenati straricchi ma anche – e purtroppo – gente comune.
Ah, se fossimo rimasti all’originaria accezione del termine transumanesimo fornita da Julian Huxley: “l’uomo che rimane umano, ma che trascende sé stesso, realizzando le nuove potenzialità della sua natura umana”[4] , collocandolo, quindi, in uno scenario di emancipazione dell’umanità in cui quest’ultima assume consapevolmente il compito di guidare il generale processo evolutivo.
Personalmente, per via delle mie passioni, avrei tranquillamente eliminato l’inciso “…che trascende se stesso…”, perché ritengo che l’Uomo possa realizzare le proprie potenzialità, senza la necessità di trascendere se stesso. Non credo che l’obiettivo di migliorarsi abbia bisogno di un andare oltre se stesso ma, giustappunto, rimanendo e riconoscendosi Umano.
Questa nuova religione non ha bisogno di divinità ma solo di sacerdoti, assoldati tra scienziati, medici, imprenditori; ha bisogno anche di fedeli e di novelli evangelisti che possano svolgere, oggi, la stessa opera che qualche centinaio di anni fa fu realizzata in Sudamerica o in Africa. La nuova religione ha anche bisogno di una nuova normalità. Si raggiungerà il transumanesimo, da costoro agognato, anche attraverso l’omologazione dei volti con l’uso delle mascherine, il distanziamento sociale causato dal timore del contagio, le limitazioni delle interazioni tra gli uomini, la nascita di nuove piattaforme social che faciliteranno la trasmigrazione dei corpi fisici negli avatar.
Le religioni classiche stanno subendo – e in alcuni casi favorendo – questa trasformazione radicale che, giustificata o meno dalle contingenze, rappresenta uno scenario sociale inedito, al punto che, per la prima volta nella storia, sia in occasione di guerre che di pandemie, per mesi sono state proibite le normali funzioni religiose e sono state interrotte le principali feste religiose: Pessach, Pasqua, Vaisakhi, Navratri, Buddha Purnima e Ramadan. Ma negli stessi mesi nei quali sono rimaste chiuse chiese, sinagoghe, moschee e templi, ritenuti non essenziali, erano invece aperti tabaccai, negozi di alcolici ed armerie.
Pare essere uno scontro diretto tra la fede nella vita eterna dell’anima e la conservazione del corpo in questa vita temporale.
Svuotando l’Essere Umano delle qualità che contraddistinguono “l’Essere Umano” rispetto alla totalità delle altre creature della Terra, si eliminerà la morte e quindi la paura della morte stessa. Quella paura che ora sta attanagliando in una moltitudine di problemi le persone, che genera una sorta di follia collettiva, quella paura, che ci fa ricercare sempre più la quantità di vita a scapito della qualità della vita, sarà solo un brutto ricordo.
Il programma di transumanesimo in atto, infatti, teorizza l’indefinito prolungamento della vita biologica e l’immortalità della mente trasformata in algoritmi caricati su un cloud dove vivrebbe eternamente.
VITA DA “NON MORTI” O VITA DA MORTALI? L’IDEA DEL TRANSUMANESIMO È SUFFICIENTE PER CHIEDERCI COSA VOGLIAMO VERAMENTE.
Vero, presunto, progettato o meno – non importa – ma rimane il fatto che un’accozzaglia di RNA, proteine ed enzimi, di fatto invisibile, ci ha catapultati all’improvviso in una società mondiale del rischio, obbligati a ridefinire radicalmente le nostre vite sia sul piano esistenziale che psicologico, sociale ed economico. In questo contesto sono riemersi, scientemente o meno, linguaggi oramai dimenticati quasi da scenario medievale oltre che paure apocalittiche. Un essere, neppure propriamente vivente, delle dimensioni di qualche centinaio di nanometri (miliardesimi di metro), uno tra le centinaia esistenti nel mondo, ha permesso l’irruzione della morte nelle case e nelle famiglie, come presenza realissima o come spauracchio costantemente incombente[5] , anche grazie alla reiterazione mediatizzata della notizia.
Ci siamo detti di essere tutti sulla stessa barca ma, la mancanza di un approdo sicuro quale poteva essere una religione millenaria o la spiritualità della morte, ci sta facendo vivere singolarmente l’angoscia dell’andare alla deriva sulla nostra personale minuscola zattera di salvataggio.
Non a caso sono proprio le giovani generazioni, cioè coloro più distanti dall’idea religiosa e spirituale classica, a prostrarsi più docilmente dinanzi alla nuova divinità. La maggioranza di loro non crede in una qualche previsione di vita dopo la morte; i giovani non la temono perché non ci pensano né se ne occupano, men che meno ci sperano. Di fronte alla morte, in realtà e purtroppo, si ritrovano impotenti, sguarniti di armi animiche, simboliche e spirituali.
Ma la morte possiede una potenza ineguagliabile.
Tolstoj, in Guerra e Pace, ricordava che “L’uomo non può possedere niente fintanto che ha paura della morte. Ma a colui che non la teme, appartiene tutto. Se non esistesse la sofferenza, l’uomo non conoscerebbe i suoi limiti, non conoscerebbe se stesso”.
Giacomo Leopardi, nei suoi Pensieri, diceva che “La morte non è male, perché libera l’uomo da tutti i mali, e insieme coi beni gli toglie i desiderii. La vecchiezza è male sommo: perché priva l’uomo di tutti i piaceri, lasciandogliene gli appetiti, e porta seco tutti i dolori. Nondimeno gli uomini temono la morte, e desiderano la vecchiezza”.
Gabriel Garcia Marquez, ne L’amore ai tempi del colera, sosteneva che: “Lo spaventò il sospetto tardivo che è la vita, più che la morte, a non avere limiti”.
E lo scrittore britannico Edward Morgan Forster, nel libro Casa Howard, scrisse: “La Morte distrugge un uomo: l’idea della Morte lo salva”.
La morte possiede una potenza ineguagliabile, sì! È colei che, con la sola sua presenza, trasforma la vita in Vita indimenticabile, unica, fantastica. Degna di essere vissuta pienamente.
Articolo di:
Roberto Piscitelli
Note:
[1] Cracovia 7 aprile 1884 – New Haven 16 maggio 1942 antropologo e sociologo polacco naturalizzato britannico
[2] Macerata, 28 dicembre 1958
[3] B. Salvarani “Dopo. Le religioni e l’aldilà” – Laterza (2020)
[4] “Nuove bottiglie per vino nuovo” (“New Bottles for New Wine”), Londra, Chatto & Windus, 1957, pp 13-17
[5] B. Salvarani op. cit.
Bibliografia essenziale
– B. Salvarani, “Dopo. Le religioni e l’aldilà”; Laterza.
Le informazioni contenute in questo post non sono indicazioni o prescrizioni mediche, hanno il solo scopo di informare. Al fine di agire nel rispetto del proprio corpo e bene farsi seguire da operatori del benessere accreditati e consultare sempre il proprio medico.
Se desideri essere messo in contatto con un medico specializzato in medicina integrata e olistica, uno dei nostri kinesiologi o direttamente con l’autore contattaci, saremo lieti di consigliarti gratuitamente sui professionisti della nostra rete di contatti.
Correlati